Clara Daniele

Chi sono
300 grammi
progetto fotografico / stampa su dimensioni variabili
2019
Cuore. Organo muscolare cavo. 300 grammi.
Un peso minimo per un organo capace di ricevere sangue e di rilasciarlo.
Ricevere e rilasciare in un continuum che non smette mai e si ferma solo con la morte.
Con la morte il sangue staziona all'interno di questo muscolo.
Si secca.
Il cuore deve essenzialmente accogliere e lasciare fluire, si apre costantemente almeno 70 volte al minuto, 4000 volte all'ora per un totale di circa centomila battiti al giorno.
Il sangue può scorrere solo in una direzione e quindi il flusso vitale non può mai tornare indietro e lo fa percorrendo circa ventimila chilometri al giorno.
Mi interessava toccare un cuore, pesarlo tra le mani, entrare in contatto con il sangue, fluido misterioso e nascosto, portatore di molteplici significati mitici e rituali, oltre che storici e culturali.
Rose George nel suo libro Nine pints (2018) scrive che "il ferro contenuto nel nostro sangue viene dalla morte delle supernove, come tutto il ferro del nostro pianeta. Questo liquido rosso vivo, pompato dal cuore, contiene sali e acqua, come il mare dal quale probabilmente siamo venuti".
Il lavoro fotografico è stato realizzato con un cuore di maiale adulto.
Tenerlo tra le mani, sentirne il peso, accudirlo, cucirlo e custodirlo è stato come prendermi cura del mio stesso cuore, riconoscendolo nella manifestazione esteriore di un altro essere, in un respiro ampio, ancestrale e rituale.
Chrysalis
progetto fotografico / stampa fine art su carta cotone
2016
Ogni opera è il processo di una ricerca
Non lo sapeva con certezza, ma parlava di una forza scatenante, capace di allargare la coscienza.
Questo è stato Chrysalis, un espandersi di possibilità, nate principalmente dall'osservazione delle mute dei bachi da seta e cercando di andare in sincrono con la loro tempistica di mutamento.
Nello scheletro cartilaginoso dei bachi da seta si addensa una memoria di migliaia di anni, le mute si ripetono sempre uguali, seguendo il ciclo dell'albero di riferimento: il gelso. Sono piccoli miracoli e accadono in uno stato di attesa e di silenzio.
Le quattro mute che i bachi affrontano sono in parte dolorose, per ognuna il baco si immobilizza e aspetta che avvenga il passaggio allo stadio successivo. Nei miei scatti ho voluto rendere il senso di questa attesa e insieme quello di una sofferenza che ho percepito lieve perché portatrice di una maturazione, di cambiamento.
L'attesa ha portato con sé anche lo stupore: come fa un essere così fragile a creare così tanta bellezza procedendo verso una dimensione così grande, una dimensione che ha un sapore di assoluto? Attraverso la storia dei bachi ho cercato di narrare parte della mia storia.
Ho lavorato facendo degli autoscatti in movimento, eseguiti usando tempi lunghi di posa, e ho cercato di riportare il processo delle quattro mute in fotografia, diventando consapevole a poco a poco della mia stessa trasformazione. Attraverso l'oro dei fili di seta, che piano piano costruivano il rifugio dal mondo, ho curato me stessa, attraverso la vita di questi insetti millenari sono ritornata indietro nel tempo, ai racconti narrati da mia nonna in qualche pomeriggio d'estate, quelli legati ad una giovinezza passata a lavorare alla filanda: il cerchio si chiude, la memoria si trasforma e prende nuove strade, muta, come fanno tutte le crisalidi.
Ex voto
installazione mixed media
Galleria Mémoire de l'Avenir, Parigi
1-30 marzo 2019
«È inesprimibile il modo con cui Dio ferisce l'anima»
Testo critico a cura di Alessandra Spigai.
Ne "Il castello interiore" Santa Teresa (1515-1582) scrive: «È inesprimibile il modo con cui Dio ferisce l'anima. Il tormento è così vivo che l'anima esce fuori di sé, benché insieme sia tanto dolce da non poter essere paragonato ad alcun piacere sulla terra. Perciò, l'anima vorrebbe star sempre morendo per la forza di quel male. Lo spasimo della ferita era così vivo che mi faceva uscire nei gemiti, ma insieme pure tanto dolce da impedirmi di desiderarne la fine e di cercare altro diversivo fuori che Dio. Benché non sia un dolore fisico ma spirituale, vi partecipa un poco anche il corpo, anzi molto. Allora tra l'anima e Dio passa come un soavissimo idillio».
Nell'opera Ex Voto, ultimo lavoro di Clara Daniele, la raccolta, la scelta e l'intervento coercitivo sulle icone religiose di sante e madonne è una manipolazione artistica tacitativa e seducente.

Agisce sulla assodata angelicazione della attività/sessualità dell'immagine della donna santa tacitandole ogni possibilità attraverso nastri adesivi neri che chiudono occhi e mani, cavi e filamenti che trattengono movimenti ed intenzioni, cancellazioni e utilizzo dell'usura del tempo come strumento di segno.

Questi tiranti rossi che cuciono gli occhi sono lacrime di sangue che attraversano e sottolineano quella che viene detta dai maestri spirituali la "trasverberazione" (dal latino "verberatio", "colpo", "ferita", con la preposizione "trans", cioè "che attraversa") che è "l'essere toccati e come attraversati dall'amore divino che ferisce e dona una dolcezza che nessun amore terreno al mondo potrebbe mai donare".

Lo sguardo dell'osservatore che si pone su quest'opera scorre da donne a madri e madonne, quasi schivando istintivamente l'immagine del maschio, scivola tra una scoperta e un'altra dei vari interventi e modificazioni sulle icone mistiche.

Azione che apparentemente mima un lieve camminare dell'artista in punta di piedi nelle esperienze della vita, che si limita a raccogliere e correggere a suo modo, ma che in realtà significa una presenza seducente ben più forte, in quanto ella trasforma intensamente gli elementi femminili sul suo percorso, rendendoli altri da sè, a tratti ambigui, sospesi, trattenuti, e offrendo con questo gesto artistico un'impronta radicale, una suggestione d'estasi viscerale e controversa che arriva a suggerire concetti masochistici, o almeno profondamente fisicamente appassionati. Nell'opera Ex voto Clara Daniele mette le mani sull'alleanza dello spirito e del corpo della donna con la divinità, superando la collocazione temporale del femminile, e stimolando sull'osservatore nuovi quesiti ed enigmi che sono il vero cuore dell'arte contemporanea.
Intima materia
Clara Daniele | Michele Bruna
grandArte HELP humanity.ecology.liberty.politics
5/27 novembre 2022 | Cuneo, Palazzo Samone
18 settembre/2 ottobre 2023 | Parigi, 59 Rivoli
Nuove forme tra ferro e cuore.
Nella sua ‘Breve storia del sangue’, Rose George scrive che "il ferro contenuto nel nostro sangue viene dalla morte delle supernove, come tutto il ferro del nostro pianeta" L’elemento ferroso, dunque, come un legame tra l’immensamente grande e l' infinitamente piccolo, come un unico filo conduttore tra l’intimità insondabile dell’artista e la dimensione materica della sua azione.
Clara Daniele e Michele Bruna, in questo loro poderoso incontro, esplorano con insolita forza il pulviscolo cosmico che aleggia intorno a noi. Il metallo e la fibra, il tessuto e la carta, l’acqua che tutto lega e tutto trasforma. Anche la polvere di stelle, raccolta dal pavimento come residuo del processo artistico dell’uno, diviene pigmento e colore per la creazione dell’altra. Come nella migliore tradizione artistica, entrambi rimuovono strati. Lui di materiale ferroso e cartaceo, velocizzando un ossidazione che diventerà sede per figure astratte e irripetibili, lei di pelle e ricordi, per lasciare intravedere l' interno di un corpo che è anche dolore.
Il risultato è una materia intima che si porta addosso tutte le materie intime possibili: figure e sogni, memorie e turbamenti, tradizioni e legami. L’immensamente grande e l' infinitamente piccolo racchiusi in un discorso complementare e senza fine, libero di sperimentare nuove forme di associazione tra ferro e cuore, riscattando l’elemento umano dalla materia fredda delle supernove.
Sandro Bozzolo
La ruggine | il ferro | il sangue
Il tessuto | il bianco | la memoria

Questi elementi si sono mischiati fino a legarsi indissolubilmente nei mesi di lavoro e scambio con Michele Bruna negli spazi interni ed esterni condivisi. Da subito la ricerca di Clara Daniele ha trasportato la materia esterna nell'intimità interna del corpo, nel senso ampio del termine.
Il tessuto, strappato in lunghe bende e impastato di acqua e farina, è servito come materiale scultoreo per creare casse toraciche cave, lasciando intravedere l' ossidazione interna generata dal trascorrere del tempo, dal sangue ferroso e dalla vita. Il lenzuolo integro, invece, è stato utilizzato come sindone laica per accogliere e trattenere i segni astratti che la ruggine ha generato nei mesi di lavorazione al progetto, quasi come un operazione fotografica di esposizione multipla.
I lavori precedenti dell' artista, quelli incentrati sulla sutura delle ferite, riaffiorano attraverso il nuovo tentativo di salvare e ricucire la materia ferrosa ormai ossidata e impossibilitata a rimanere integra, generando un ulteriore stratificazione di senso che si fa soglia per nuove possibilità espressive.
Laureata in Storia e critica del teatro al Dams di Torino con una tesi sul teatro d'avanguardia di Perla Peragallo e Leo de Berardinis, dal 2005 al 2015 lavora con i tessuti sostenibili in un'ottica di rigenerazione e di recupero, cercando di andare alla radice della storia che il materiale tessile porta con sé.
La propria ricerca personale parte dunque da una relazione ibrida e contaminata tra teatro, sartoria e fotografia, mezzi espressivi che usa per portare avanti la propria ricerca personale.
Nel 2013 vince il primo premio del Concorso Nazionale Moda Etica, organizzato e patrocinato dalla Direzione Generale degli archivi del Ministero per i beni e le attività culturali e dal Comune di Firenze, presentando parte della collezione “Radici”, realizzata interamente in tela di casa, la tela di lino e canapa tessuta a mano e usata come corredo nuziale dalle giovani spose.
A giugno 2014 presenta a Palazzo Pitti a Firenze la Collezione Kimono, riadattando e decostruendo kimono dei primi del Novecento in collaborazione con la Galleria del Costume di Palazzo Pitti e la Soprintendenza per il Patrimonio Storico, Artistico e Etnoantropologico e per il Polo museale della città di Firenze.
Nel 2015, per sei mesi, cura l'installazione “Radici” in un bosco abbandonato.
L'installazione, realizzata con gli abiti bianchi presentati al concorso di Moda Etica, ha dialogato per 180 giorni col bosco e col passare dei mesi si è trasformato, si è integrato sempre di più con lo spazio naturale circostante, interagendo con le persone di passaggio attraverso un diario di bordo e un reportage fotografico dilatato nel tempo.
Da luglio a settembre 2016 realizza e espone il progetto fotografico Chrysalis | studio per un mutamento | presso le Terme Reali di Valdieri, mostra che verrà presentata anche a giugno 2017 presso il Filatoio Rosso di Caraglio e all'Officina delle Arti di Cuneo.
Da settembre 2016 lavora al work in progress Mnemosine |studio per una cura| un lavoro personale e collettivo sulla memoria e sul passato familiare, realizzato in forma di performance e installazione operando con tecniche miste sui lenzuoli tramandati in famiglia di generazione in generazione.
Ad aprile 2017 viene selezionata nel Circuito Off dell'Edizione 2017 del festival Fotografia Europea di Reggio Emilia col progetto Chrysalis.
Il 21 settembre 2017, presso la galleria Il Fondaco di Bra, esegue la performance “Mnemosine” |Studio per una cura|
Ad ottobre 2017 vince il primo premo nella sezione Arti Visive del Concorso “Ricorda di essere stato straniero” della Fondazione Nuto Revelli.
A novembre 2017 e vince il Concorso “Image no violence on woman” indetto dall' associazione ArTs di Trieste.
A settembre 2018 presenta a Trieste la sua mostra personale “Lettera dai tuoi occhi”, curata da Alessandra Spigai.
Nel mese di marzo 2019 espone il progetto ExVoto presso la galleria Mémoire de l'Avenir di Parigi nella collettiva La femme du futur.
Nel mese di giugno 2021 partecipa alla Residenza Artistica Terre e Trame di Mongia e espone la sua opera Sedimenti | di generazione in generazione | presso l'antica sede della confraternita di Santa Caterina, Lisio.
Durante l'anno di pandemia studia e cura, insieme ad Alessandra Spigai, il progetto artistico “La forme fermèe” uno studio che parte dalla figura di Camille Claudel per indagare in maniera estesa la condizione dell'artista donna, in collaborazione con l'Associazione ArTS - comparison of contemporary arts – Trieste.
A novembre 2022 presenta a Cuneo, nelle sale di palazzo Samone, il progetto "Intima materia" insieme all'artista Michele Bruna all'interno della rassegna Grand'Arte HELP 2022.
A marzo 2023, in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Brera e col collettivo quiDOVE presenta, per il progetto conTENERE, parte delle opere di Intima Materia realizzate con Michele Bruna.
A settembre 2023 col progetto Intima Materia è ospite, insieme a Michele Bruna e Sandro Bozzolo, presso la galleria 59 Rivoli a Parigi.
Legami
fotografia digitale e polaroid
stampa su dimensioni variabili
2018-2019
"Legami" prova a dire con la fotografia quello che si cela nell'intimo tra due o più persone che si sentono parte di qualcosa. Tra due persone che si contaminano, che si cuciono insieme, che sono nate legate o che lo sono diventate.
Lentamente, passo a passo, con cautela, inseguiti dai mesi. Oppure di colpo, senza neanche rendersene conto. Travolti. La declinazione più ovvia è quella della coppia in tutte le sue forme. Le meno ovvie aprono precipizi e abbattono il muro del tempo e dello spazio. Il legame salva, il legame limita. Legami, la decisione sta nel dove mettere l'accento.
La forme fermèe
Progetto artistico in collaborazione con l'Associazione ArTS - comparison of contemporary arts - Trieste
18 marzo - 6 apile 2021 Trieste, sala Veruda (annullata causa pandemia)
Camille Claudel madre delle sculticri
La forme fermèe è una riflessione che parte dallo studio e dalla figura della scultrice Camille Claudel (1864 - 1943) ricordata spesso solo per essere stata l’amante di Auguste Rodin e non per essere stata una scultrice di altissimo livello lei stessa.
A causa di una vita che non seguiva i dettami femminili del tempo, Camille fu internata, per presunta psicosi da persecuzione, solo perché la sua famiglia si vergognava di lei e dei suoi comportamenti anticonvenzionali.
Passò gli ultimi 30 anni della sua vita chiusa in manicomio, senza più la possibilità di scolpire e di proseguire la sua carriera artistica.
Questi scatti, insieme allo studio di altre installazioni e di una performance, sono ciò che rimane di un progetto realizzato a quattro mani con l’artista Alessandra Spigai per una mostra a Trieste che purtroppo, a causa delle restrizioni dovute alla pandemia, non ha mai visto la luce.
Oltre all’omaggio alla scultrice Camille Claudel, questi scatti rappresentano anche lo stallo, il blocco, il senso di appiccicosa immobilità che ogni artista prima o poi deve affrontare prima di ritornare a proseguire con la sua ricerca.
Rimane assolutamente attuale la riflessione sulla sorte umana e delle opere di molte donne artiste che nei secoli scorsi sono state dimenticate, oscurate, processate e svalutate perché non conformi al ruolo subalterno che una società maschilista pretendeva e imponeva loro.
Sedimenti
Installazione site specifici composta da garze, lenzuoli e camicie antiche in lino e canapa.
Performance 25 settembre 2021- chiesa di Santa Caterina, Lisio.
Restituzione della Residenza Artistica Terre di Mongia 2021
Testimonianza di una memoria collettiva
I lenzuoli e le camicie da notte di questa installazione parlano delle storie e delle persone della Valle: sono la testimonianza di una memoria collettiva e ci riportano a fare diretta esperienza delle nostre origini. Mantengono il ricordo dei corpi che li hanno usati e vissuti ed è con questi segni che mi interessa provare a lavorare. Questi semplici pezzi di stoffa possono suscitare una risposta emotiva immediata: riescono a metterci in comunicazione con l'esperienza del nostro tempo limitato di essere al mondo.
Questi teli evocano fragilità, ma anche vita e rigenerazione continua: è molto probabile che in questo bianco siano avvenuti concepimenti, nascite e decessi. È di questa memoria che desidero parlare. È di questa memoria che desidero prendermi cura. Siamo fatti di tutte le nascite e di tutte le morti che sono accadute intorno a questo bianco che ancora abbaglia e che continuerà a sopravviverci.
L'opera tenta di dare voce ad una coralità di vissuti (non sempre edificanti) principalmente legati al femminile, ma in costante dialogo con la storia di ognuno e di tutti.
Fondamentale è stato anche il legame con l'ambiente architettonico dell'installazione: la sacrestia della chiesa di Santa Caterina. Questo luogo conteneva il sacro, lo proteggeva, lo preparava ed è qui che sono rimasta a cucire durante la performance. La sacrestia, dunque, come una camera per raccogliere le forze e rigenerare il legame della valle tra le generazioni passate e quelle future.
Il desiderio è stato quello di un'esperienza di arte partecipata. Durante il tempo della performance ho cucito insieme tessuti molto antichi appartenuti ad alcune famiglie della valle e ho percepito il mio lavoro come una cura (operata attraverso le garze e l'uso del filo che ha unito ciò che prima esisteva separato). Contemporaneamente non ho potuto fare a meno di portare all'interno di questa performance una parte di me - la creazione di un nido, un nuovo concepimento, una nuova nascita.
Io sono l'altra faccia di te
Fotografia, video e mixed media
Giugno 2019
"Il mattino che mi alzai per iniziare questo libro, tossii. Qualcosa veniva fuori dalla mia gola, mi strangolava. Spezzai il filo che la teneva e la buttai via. Tornai a letto e dissi: ho sputato il mio cuore." Anais Nin | House of Incest
Il progetto parte da una rielaborazione degli scatti di Chrysalis in un'ottica modificata e filtrata da un vissuto doloroso che andava accolto. Il titolo e il tema del progetto sono presi dal testo poetico di Anais Nin - La casa dell'incesto - 1932. L'intento della scrittrice era quello di "procedere dal sogno per entrare nel dato sensibile", cioè di immergere l'esperienza onirica nel flusso della vita quotidiana. Ne nasce un racconto allucinato, accessibile a diversi livelli, caratterizzato da una prosa sontuosa e musicale: l'ho sentito subito mio, anche io volevo portare il vissuto onirico nel quotidiano, per strapparmelo da dentro, per riuscire a vederlo. Anais Nin, facendo riferimento all'amato Rimbaud, lo definì "la mia stagione all'inferno", io non posso che, umilmente, sottoscrivere queste sue parole per quanto riguarda il mio viaggio in quel territorio.
Ho potuto far mie intere parti del testo poetico, vivendo visceralmente in prima persona ciò che mai avrei pensato mi potesse appartenere. Solo oggi, dopo molti mesi, riesco a rendere pubblico parte di questo lavoro che mi vede completamente esposta.
"Smetti di tremare e di agitarti e di affannarti e di imprecare e ritrova il tuo centro che sono io. Riposati da deviazioni, distorsioni, deformazioni. Per un'ora sarai me, cioè l'altra parte di te. La metà che hai perduto. Ciò che hai bruciato, spezzato e strappato è ancora nelle mie mani: io sono la custode di fragili cose e di te ho custodito ciò che è indissolubile. Ho messo insieme i tuoi frammenti. Te li restituisco. Sei corsa come il vento, ti sei sparpagliata e disciolta. Io ti sono corsa dietro come la tua ombra raccogliendo quello che avevi sparso in capaci forzieri.

IO SONO L'ALTRA FACCIA DI TE."
Lettera dai tuoi occhi
Trieste |8-15 settembre 2018| Piccolo Spazio d'ArT's
Lettera dai tuoi occhi parte da una serie di diapositive, realizzate da mio padre, che ho riscoperto per caso in un armadio di famiglia. Da circa 400 diapositive ne ho selezionate quaranta, mettendole doppie in un unico telaietto e generando il racconto di una vita mai esistita, ma forse ancora più reale di quella che volevano immortalare. Il progetto nasce come tentativo di dialogo tra un padre morto anni fa e una figlia che non ha avuto il tempo di chiedere “com'eri quando la vita non aveva ancora gettato il peso sulla tua esistenza?”. Quello che ho tentato di sondare era la meraviglia negli occhi di un uomo giovane, un essere ancora completamente aperto alla vita, insieme alla dimensione della memoria e del tempo ricordo.
Ogni scatto è un tentativo di immortalare un attimo di tempo vissuto. Ogni scatto, soprattutto quando i rullini costavano e costava lo sviluppo e la stampa della foto o l'intelaiamento della diapositiva, era scelto in quanto documento importante di ciò che si stava vivendo. Non c'è nulla di straordinario nelle diapositive che ho trovato o selezionato, semplicemente c'è la documentazione dell'esistenza di una persona qualsiasi in un punto qualsiasi dell'Italia negli anni Settanta e Ottanta. Eppure, ogni scatto racchiude in sé la potenza di una visione: la possibilità di un dialogo che si può dare anche postumo, proprio perché ciò che è rimasto fissato sulla pellicola lascia intravedere piccoli segnali di quella luce che quest'uomo giovane aveva negli occhi.
La mostra è suddivisa in tre parti: la prima comprende le 60 diapositive +1 che pendono dal ramo e rimandano ad attimi comuni immortalati da un padre; sono momenti di vita quotidiana, significativi solo per chi li ha fotografati, per chi era lì in quel momento, in quel qui e ora. Sono momenti destinati all'oblio e nella mostra c'è il desiderio di salvarli, di salvare una piccola e insignificante memoria, sapendo già di andare incontro ad un fallimento. La seconda parte è composta da 10 diapositive + 1 inserite in fragilissimi telai di vetro ritrovati in una casa abbandonata. Le diapositive di questa sezione sono state scelte tra tutte e separate dalla massa delle altre: rappresentano una sorta di catalogazione della memoria, non sono fluttuanti come le altre diapositive appese. Questa sezione rappresenta in parte i momenti maggiormente significativi, quelli di cui ho un ricordo personale, quelli che una persona desidera preservare o quelli da cui vorrebbe separarsi. La scelta non casuale nell'ambito della memoria. La scelta indicata da un vissuto. Incomprensibile ad un occhio esterno, ma profondamente significativa all'occhio che sceglie. Le domande alle quali tento di dare una risposta sono: quali ricordi scegliamo di preservare? Cosa si cela dietro a questa scelta? Infine la terza parte è occupata dalle diapositive proiettate, in questo caso una specie di lavoro a quattro mani: lo sguardo di un padre e la rivisitazione di questo sguardo da parte di una figlia. Due diapositive in un unico telaio e la creazione di un dialogo, di una lettera vera e propria, un tentativo di comunicazione tra due mondi di per sé inconciliabili: quello dei vivi e quello dei morti.
Una storia inedita, composta dal passaggio della luce sulle pellicole impressionate e unite. L'unione di due vissuti, di due visioni, in parte generata dalle stesse cellule che si trasferiscono da un essere all'altro, come accade nel caso della genitorialità. E' qui che la memoria può essere a tratti ancora viva, palpitante, capace di visione e di parola. Le immagini che emergono da questa unione postuma non sono chiare, appaiono come provenire dal mondo onirico, dal mondo dell'inconscio, il desiderio è quello che qualcuno le possa in parte decifrare e ascoltare a livello emotivo, trasferirle sopra la propria memoria personale, stratificandola. In questo progetto tutto cerca di rimandare ad una fragilità, ad una precarietà dell'esistenza ed è qui che la storia individuale si fa universale. Ciò che mi interessa è inoltre la dimensione sentimentale dell'arte, tentando di stabilire un aggancio con l'animo di chi guarda, di chi respira all'interno della stanza. Conta tutto: conta il rumore del proiettore, conta la densità e l'opacità del vetro, conta la fisicità del ramo sospeso, contano gli anni e che cosa hanno visto i muri che conterranno la mostra. Conta l'odore del posto, conta la polvere che si sedimenta in granelli piccolissimi e danza nella stanza durante la proiezione. Desidero che vengano coinvolti tutti i sensi perché non sia guardare un'opera, ma sia un essere dentro all'opera, essere con me in questo tentativo di comunicazione e di salvataggio di brandelli di una vita dall'oblio del tempo. img: comunicato lettera tuoi occhi.avif
Attraverso
Progetto fotografico
Stampa su dimensioni variabili
2018
Rimango ancora da questa parte della strada, nell'utopia di riuscire ad attraversare.
L'attraversamento è segnato, so dove devo andare, ma riposo ancora un po' nel bianco che mi ha generata, preceduta, partorita, accudita, cullata.
Questi teli bianchi così candidi eppure così pesanti. Centinaia di anni racchiusi all'interno di ogni fibra. Prima ancora erano pioggia, terra nuda, radici, zolla, stelo, foglia, stimmi, vento, fusto, luce.
(Io) Sono la radice del cambiamento che mi aspetta.
Vanitas
progetto fotografico
stampa su dimensioni variabili
2018
Vanitas vanitatum et omnia vanitas |Vanità delle vanità, tutto è vanità| Qoélet, Ecclesiaste, 1,2-12,8
Un cimitero di provincia: gli occhi di una donna morta da troppi anni, incontrano i miei attraverso una fotografia.
La fotografia come debole espediente per trattenere, fermare e immobilizzare la vita, gli attimi, la bellezza, la luce.
Una partita persa in partenza, la storia di un continuo fallimento.
Nei vasi, fiori finti di decenni prima, effimeri nel loro tentare di oltrepassare l'inevitabile caducità di quelli veri, della vita. Nature morte, create artificialmente dall'uomo per tentare di sopravvivere. Sublimazione della morte nel posto che più di ogni altro la custodisce.
L'occhio a volte non riesce a distinguere, in uno scatto, il fiore finto da quello vero, esattamente come la mente non riesce a rendersi consapevole che ogni giorno che passa è un altro passo verso l'oblio.
Ricorda di essere stato straniero
Primo Premio alla IX Edizione del concorso Scrivere Altrove
Fondazione Nuto Revelli
Installazione
2017
Quello che ho voluto sondare sono i passi invisibili, quelli rimasti intrappolati nelle pieghe della memoria di ognuno, in particolare di chi è stato costretto a migrare dal conosciuto verso lo sconosciuto, spesso completamente differente.
E' come guardare in un caleidoscopio del tempo, dove esiste la possibilità che si moltiplichino e si espandano le vite, gli spostamenti, i paesaggi interiori e quelli esteriori.
Le scarpe, alcune con centinaia di anni racchiusi nelle suole e altre più recenti, sono riproposte nel presente: si possono vedere, toccare, possono farci commuovere.
Di fronte a loro, siamo vivi.
Nell'accumulo degli oggetti vedo e sento ammassati i resti di una vita, a simbolo di tutte le vite.
Sono legate tra loro da un filo che lega e collega, un filo che è come un cordone ombelicale che cuce insieme tutte le storie, quelle delle migrazioni dei primi del Novecento con le storie quotidiane delle migrazioni di oggi.
Il filo, come era per Maria Lai, sostituisce la scrittura e si fa mezzo per esprimere ciò che il linguaggio riesce solo a suggerire.
Tre paia di scarpe si fanno terra e sono terreno fertile per tre tipi di semi (baobab, larice e cedro del Libano) provenienti da tre zone diverse: un atto simbolico per porre in essere lo sviluppo di una speranza, quella del possibile e riuscito radicamento in un luogo diverso da quello in cui si è nati.
Le scarpe conservano in sé un'accidentalità dolorosa, la mia missione è stata salvarli dall'oblio: sono reperti dai quali è possibile sentire raccontare una storia e che improvvisamente riacquistano la dignità perduta.
Avevano uno scopo, una destinazione. Ora sono come reliquie e vengono trasformati in domande.
Sono scarpe che non porteranno più da nessuna parte, eppure consentono di fare un viaggio all'interno delle vite che le hanno indossate, nelle vite di chi ha subito e subisce il doversi muovere, non per desiderio ma per necessità, costrizione.
Pelle, vernice, morbido scamosciato, sudore, lacci, legno, plastica, fibbie, chiodi, terra: un grafico degli spostamenti.
Quelli dei primi del Novecento verso l'America, come le migliaia di persone migrate dalle nostre valli che sono state registrate a Ellis Island, con ancora negli occhi la luce autunnale catturata dai boschi di larici, castagni e acacie, insieme agli spostamenti attraversati dalle scarpe più recenti, quelle che ho immaginato percorrere altre rotte, ma sempre portando con sé la propria storia e il proprio paesaggio da cui, quasi sempre controvoglia, si è costretti a partire.
Nessuno può conoscere la luce e i colori dei paesaggi di partenza, ma un'eco di questa immagine la si può scorgere intrappolata nelle scarpe, che in alcuni casi si radicano accogliendo la terra e i semi delle piante proprie del luogo d'origine, dando vita così a nuovi paesaggi, in un ciclo che si ripete sempre identico da diversi luoghi nel mondo, di generazione in generazione.
Nella mia interpretazione di Ricorda di essere stato straniero è presente ciò che è assente.
Era da Acceglio, da Dronero, da Cuneo verso la Costa Azzurra, Parigi, Berlino, Nuova York, l'Argentina, l'Australia.
Era ed è, oggi, da Dakka, Lagos, Tirana, Damasco, Aleppo, da Kabul, Asmara,Yamoussoukro, Bamako, sempre verso le medesime rotte e le stesse indicibili sofferenze.
Da quali storie, da quali paesaggi, da quale pulviscolo di luce migrano le persone?
Quanto tempo occupa la ricerca del proprio paesaggio una volta stabiliti in un nuovo luogo?
Non lo sapremo mai, esiste solo la duplice certezza di una vita – di molte vite - e della sua scomparsa – le vite perse nei labirinti del tempo.
Sono storie sconosciute, nessun museo le raccoglierà, risulterà tutto indistinto, mischiato, confuso, raccontato e dopo poco dimenticato.
Ma lo sguardo d'insieme, la prospettiva di visione, che si può avere facendo qualche passo indietro, ci restituisce il senso di tutto, un disegno che prende forma e vita sotto i nostri occhi.
Su tutto rimangono i legami, quelli con il paesaggio d'origine, quelli tra le generazioni, quelli di mutuo aiuto tra chi è costretto a spostarsi: fili resistenti cuciono insieme la memoria e le storie.
Possiamo solo pensare di indossare per un attimo, nel nostro immaginario, le scarpe di chi è stato costretto a partire, vestire le memorie altrui per trovarne un'eco della nostra.
Gli oggetti salvati dall'oblio ci guardano, ci interrogano.
La mia opera vorrebbe essere un atto di restituzione: restituire l'immagine perduta del paese che ogni persona si porta dietro, a cui desidera tornare e che precipita nella malinconia quando la lontananza si fa troppo grave.
Ma è anche un tentativo di restituire dignità alle vite di tutti gli sconosciuti che hanno indossato e camminato in queste scarpe.
Attraverso i loro passi possiamo percepire il dolore, ma anche la speranza, la paura mista alla grazia e finalmente lo stupore di poter un giorno indossare le stesse scarpe provando agio nel percorrere una terra diversa per arrivare, nonostante tutto, alla fine di un vagare.
Su tutto rimane però la consapevolezza che il senso della vita, per alcune persone, sia e sia stato, senza possibilità di scelta, quello della reazione ad una separazione continua.
Image no violence on woman
Progetto fotografico
Stampa su dimensioni variabili
2017
Primo premio al concorso Imagine no violence on woman indetto dall' Associazione ArTs di Trieste
Ho scelto lei come simbolo perché racchiude secoli di sfregio e oppressione. Non è successo solo ieri, è accaduto dall'inizio dei tempi. Lei si porta addosso millenni di discriminazioni, umiliazioni, violenze e libertà negate. Ma si porta addosso anche millenni di teste rialzate, di sogni comunque realizzati, benedizioni, lotte, audacia, amore e coraggio. Lei è Maria ma anche Maddalena.
È tutte e nessuna, è la parte continuamente lesa, sia essa dentro un corpo di donna o di uomo. Io sto dalla sua parte, contro tutti i soprusi, in ogni parte del mondo. Oggi, come allora.
Mnemosine
Studio per una cura
2016-2017
Mnemòsine (in greco Μνημοσύνη, Mnemosùne) è, per la mitologia greca, la personificazione della Memoria. Figlia di Urano (il Cielo) e Gea (la Terra) è una delle titanidi ed è la madre delle Muse.
Se è vero che l'arte è una forma di cura, una possibilità per manifestare il proprio sé più autentico, allora Mnemosine ha voluto provare a segnare un sentiero su questo cammino, per scoprire, riconoscere e portare cura alle piccole o grandi ferite che ognuno di noi ha vissuto a livello personale, famigliare o parentale. Un lavoro sulla propria Memoria e su quella collettiva. Mnemosine nasce nell'ottobre 2016 da una ricerca personale sul tema delle radici famigliari, dei blocchi legati alla propria storia e della cura delle ferite.
Ho operato per mesi sui lenzuoli appartenuti alla mia famiglia, tramandati di generazione in generazione per linea matrilineare ed è stato naturale, quasi da subito, aprire questa esperienza anche all'esterno, a chi volesse mettersi in contatto con la propria storia e alle proprie ferite attraverso un'azione artistica. Durante il 2017, inoltre, Mnemosine è diventato un progetto itinerante, fino a spostarsi nel nord Est e incontrare le artiste Nadia Enne Effe Frasson e Alessandra Spigai che hanno operato in due giornate distinte il loro contributo sui teli che hanno viaggiato con me in una valigia di cartone dei primi del Novecento.
Durante l'anno, venticinque donne (+ un uomo) hanno partecipato alla condivisione delle cuciture, rielaborando le proprie ferite assieme alle mie, fino ad arrivare alla due performance finali, la prima presso la Galleria Il Fondaco di Bra e la seconda presso Sant'Antonio di Boves (Cn). La performance è stata realizzata su di me, immobile a terra sui teli già operati nei mesi precedenti, attraverso l'uso di garze, ago e filo, in uno stato di assoluto silenzio e in un contesto di massima cura e meditazione, nella consapevolezza che l'azione artistica che si stava svolgendo era in grado di agire su ognuno ad un livello sottile, invisibile, ma in maniera profonda e indelebile.
Considero l'ago, il filo e la garza gli strumenti per riparare il mondo, per ricucire insieme parti che altrimenti si perdono. Mnemosine è stata la ricerca del punto debole, quello più delicato ma anche quello che porta su di sé una storia, per renderlo capace di parola e di visione.
Radici
Installazione site-specific della durata di 6 mesi presso un bosco abbandonato
Colline di Boves (Cn)
2015-2016
L'installazione, realizzata con gli abiti in tela di canapa e lino presentati al concorso di Moda Etica, ha dialogato per 180 giorni col bosco e col passare dei mesi si è trasformata, si è integrata sempre di più con lo spazio naturale circostante, interagendo con le persone di passaggio attraverso un diario di bordo. Radici è un tentativo di ricucire gli infiniti testi che emergono dalle pieghe dei territori e lo fa attraverso degli abiti che dalla terra nascono (la canapa coltivata dalle antenate della mia famiglia) e che alla terra ritornano, in un ciclo che si chiude. Gli abiti prendono vita al tocco del bosco, nel silenzio che non è mai tale, perché è un fermento continuo quello che si può ascoltare stando fermi a contemplare i tessuti mossi dal vento, bagnati dalla pioggia, appesantiti dalla neve e asciugati dal sole.
L'abito è come un medium carico di riferimenti culturali, famigliari, ancestrali: l'abito bianco è purezza, matrimonio, ma nelle culture orientali veste la morte; ogni passante vi si rapporta rispetto alla propria esperienza di vita personale, ognuno trasferisce e legge le proprie emozioni attraverso la visione prodotta dallo straniamento degli abiti appesi agli alberi.
Radici cerca di registrare gli incontri che le persone, gli animali e gli insetti possono fare mettendosi in relazione con gli abiti appesi, sempre in un' ottica di silenzioso ascolto, che da esterno si trasforma facilmente in ascolto interno, interiore. Si ascolta l'usura del tempo, se ne riconoscono i segni e ci si immerge nel flusso del cambiamento e dell'impermanenza,nascono nuove consapevolezze dalla contemplazione: in ogni attimo non siamo più quel che eravamo e non siamo ancora quello che saremo.
Una cosa bianca
Strappi di lenzuoli antichi su telai in legno, diverse dimensioni
2024-2025
Bianchi luminosi, strappi decisi, un gesto che fisicamente allarga le braccia, che le separa per espandere, per allargare e per operare un cambiamento di forma, di stato.
Il materiale è (ancora) il mio materiale: i lenzuoli del corredo di famiglia. La struttura è un telaio in legno. Il nero lo ottengo esclusivamente col carbone, passato e ripassato sul tessuto. Non è così scontato, né semplice, sporcare ciò che nasce candido.
Perché, anche se l'occhio coglie il nero al primo sguardo, è sulla luce che mi voglio concentrare. Operando un cambiamento nel punto di vista, un allargamento nella visuale.