Ricorda di essere stato straniero |2017|
Primo Premio alla IX Edizione del concorso Scrivere Altrove
Fondazione Nuto Revelli
Installazione
Venticinque paia di scarpe, terra, garze, filo bianco, un chiodo, semi di baobab e pigne di larice contenenti i semi.
Quello che ho voluto sondare sono i passi invisibili, quelli rimasti intrappolati nelle pieghe della memoria di ognuno, in particolare di chi è stato costretto a migrare dal conosciuto verso lo sconosciuto, spesso completamente differente.
E' come guardare in un caleidoscopio del tempo, dove esiste la possibilità che si moltiplichino e si espandano le vite, gli spostamenti, i paesaggi interiori e quelli esteriori.
Le scarpe, alcune con centinaia di anni racchiusi nelle suole e altre più recenti, sono riproposte nel presente: si possono vedere, toccare, possono farci commuovere.
Di fronte a loro, siamo vivi.
Nell'accumulo degli oggetti vedo e sento ammassati i resti di una vita, a simbolo di tutte le vite.
Sono legate tra loro da un filo che lega e collega, un filo che è come un cordone ombelicale che cuce insieme tutte le storie, quelle delle migrazioni dei primi del Novecento con le storie quotidiane delle migrazioni di oggi.
Il filo, come era per Maria Lai, sostituisce la scrittura e si fa mezzo per esprimere ciò che il linguaggio riesce solo a suggerire.
Tre paia di scarpe si fanno terra e sono terreno fertile per tre tipi di semi (baobab, larice e cedro del Libano) provenienti da tre zone diverse: un atto simbolico per porre in essere lo sviluppo di una speranza, quella del possibile e riuscito radicamento in un luogo diverso da quello in cui si è nati.
Le scarpe conservano in sé un'accidentalità dolorosa, la mia missione è stata salvarli dall'oblio: sono reperti dai quali è possibile sentire raccontare una storia e che improvvisamente riacquistano la dignità perduta.
Avevano uno scopo, una destinazione. Ora sono come reliquie e vengono trasformati in domande.
Sono scarpe che non porteranno più da nessuna parte, eppure consentono di fare un viaggio all'interno delle vite che le hanno indossate, nelle vite di chi ha subito e subisce il doversi muovere, non per desiderio ma per necessità, costrizione.
Pelle, vernice, morbido scamosciato, sudore, lacci, legno, plastica, fibbie, chiodi, terra: un grafico degli spostamenti.
Quelli dei primi del Novecento verso l'America, come le migliaia di persone migrate dalle nostre valli che sono state registrate a Ellis Island, con ancora negli occhi la luce autunnale catturata dai boschi di larici, castagni e acacie, insieme agli spostamenti attraversati dalle scarpe più recenti, quelle che ho immaginato percorrere altre rotte, ma sempre portando con sé la propria storia e il proprio paesaggio da cui, quasi sempre controvoglia, si è costretti a partire.
Nessuno può conoscere la luce e i colori dei paesaggi di partenza, ma un'eco di questa immagine la si può scorgere intrappolata nelle scarpe, che in alcuni casi si radicano accogliendo la terra e i semi delle piante proprie del luogo d'origine, dando vita così a nuovi paesaggi, in un ciclo che si ripete sempre identico da diversi luoghi nel mondo, di generazione in generazione.
Nella mia interpretazione di Ricorda di essere stato straniero è presente ciò che è assente.
Era da Acceglio, da Dronero, da Cuneo verso la Costa Azzurra, Parigi, Berlino, Nuova York, l'Argentina, l'Australia.
Era ed è, oggi, da Dakka, Lagos, Tirana, Damasco, Aleppo, da Kabul, Asmara,Yamoussoukro, Bamako, sempre verso le medesime rotte e le stesse indicibili sofferenze.
Da quali storie, da quali paesaggi, da quale pulviscolo di luce migrano le persone?
Quanto tempo occupa la ricerca del proprio paesaggio una volta stabiliti in un nuovo luogo?
Non lo sapremo mai, esiste solo la duplice certezza di una vita – di molte vite - e della sua scomparsa – le vite perse nei labirinti del tempo.
Sono storie sconosciute, nessun museo le raccoglierà, risulterà tutto indistinto, mischiato, confuso, raccontato e dopo poco dimenticato.
Ma lo sguardo d'insieme, la prospettiva di visione, che si può avere facendo qualche passo indietro, ci restituisce il senso di tutto, un disegno che prende forma e vita sotto i nostri occhi.
Su tutto rimangono i legami, quelli con il paesaggio d'origine, quelli tra le generazioni, quelli di mutuo aiuto tra chi è costretto a spostarsi: fili resistenti cuciono insieme la memoria e le storie.
Possiamo solo pensare di indossare per un attimo, nel nostro immaginario, le scarpe di chi è stato costretto a partire, vestire le memorie altrui per trovarne un'eco della nostra.
Gli oggetti salvati dall'oblio ci guardano, ci interrogano.
La mia opera vorrebbe essere un atto di restituzione: restituire l'immagine perduta del paese che ogni persona si porta dietro, a cui desidera tornare e che precipita nella malinconia quando la lontananza si fa troppo grave.
Ma è anche un tentativo di restituire dignità alle vite di tutti gli sconosciuti che hanno indossato e camminato in queste scarpe.
Attraverso i loro passi possiamo percepire il dolore, ma anche la speranza, la paura mista alla grazia e finalmente lo stupore di poter un giorno indossare le stesse scarpe provando agio nel percorrere una terra diversa per arrivare, nonostante tutto, alla fine di un vagare.
Su tutto rimane però la consapevolezza che il senso della vita, per alcune persone, sia e sia stato, senza possibilità di scelta, quello della reazione ad una separazione continua.